(AGI) – Taranto, 23 mag. – Rischia di durare meno di due anni l’avventura con Ilva di ArcelorMittal, multinazionale dell’acciaio anglo-indiana.
Diversi segnali danno ormai per molto probabile l’uscita del gruppo straniero e il ritorno dell’Ilva, con gli stabilimenti di Taranto, Genova e Novi Ligure, sotto il pieno controllo pubblico con l’amministrazione straordinaria guidata dai commissari del Mise. Quest’ultima è già proprietaria degli impianti avendo avuto ArcelorMittal solo la gestione in affitto con opzione di acquisto.
Lunedì 25 maggio, in una conference call con ArcelorMittal, Ilva in amministrazione straordinaria e sindacati, il Governo, con i ministri Stefano Patuanelli
(Sviluppo economico) e Nunzia Catalfo (Lavoro), riapre il dossier acciaio a distanza di qualche mese. Ora si fa strada l’ipotesi di un nuovo piano basato sull’intervento dei siderurgici italiani con un forte ruolo dello Stato e quindi sulla definitiva uscita di ArcelorMittal. Le proteste di Genova e Taranto.
Nel frattempo sempre lunedì i sindacati hanno indetto anche uno sciopero di quattro ore in tutto il gruppo ArcelorMittal, che però a Taranto sarà di otto ore tra primo e secondo turno e coinvolgerà anche i lavoratori delle imprese. Intanto, il 21 maggio a Genova si è protestato di nuovo con uno sciopero articolato in stabilimento. Sciopero arrivato dopo la prima iniziativa di lunedì 18 maggio quando un corteo di 500 lavoratori (ma i sindacati non l’hanno chiamato così, stante i divieti di manifestazioni causa Covid-19) si è mosso dalla fabbrica alla Prefettura di Genova dove poi nel pomeriggio c’è stata una call conference con l’azienda, chiusasi però con un nulla di fatto rispetto alla proposta sindacale e istituzionale di ritirare la cassa integrazione aggiuntiva. A Taranto nella mattinata del 22 maggio ci saranno due presidi: sotto la Prefettura di Fim, Fiom e Uilm e davanti allo stabilimento dell’Usb.
L’insofferenza e la protesta di lavoratori e sindacati verso ArcelorMittal è ormai molto evidente. Anche le imprese che a Taranto lavorano col siderurgico hanno assunto una posizione critica per i mancati pagamenti delle fatture scadute, e il Governo lo sa bene. Patuanelli ha detto che i segnali di abbandono di ArcelorMittal sono espliciti. L’azienda ha cercato nelle ultime settimane di avere un prestito di 400 milioni garantito dallo Stato – sfruttando le misure pianificate per l’emergenza Covid – ma il Governo ha detto no. E l’ipotesi di una penale da un miliardo che verrebbe chiesta ad ArcelorMittal in caso di abbandono, pure circolata in questi giorni, è però smentita dal Mef.
Anche se non erano mancate le proteste con l’avvento di ArcelorMittal a novembre 2018, il clima allora prevalente fu quello della cautela e della prudenza. Da più parti si ritenne di dover comunque dare un’apertura di credito ad un gruppo che prometteva il rilancio ed un piano ambientale all’avanguardia nel mondo. A maggio 2019, però, il clima era già mutato. Per la crisi del mercato, ArcelorMittal annunciava che l’obiettivo di 6 milioni di tonnellate che si contava inizialmente di raggiungere a Taranto nel 2019, era rinviato di un anno. A luglio 2019, poi, primo, vero corto circuito nei rapporti con l’azienda che, sempre per la crisi di mercato, mette in cassa integrazione ordinaria per 13 settimane poco più di 1200 addetti a Taranto. Non è che l’inizio: perché la cassa sarà rinnovata di 13 settimane in 13 settimane sino a fine marzo 2020 e quasi tutte le volte senza accordo col sindacato.
Altro corto circuito a novembre scorso, con l’azienda che dichiara di voler recedere dal contratto e sposta tutto in Tribunale. Ci vorranno quattro mesi di battaglia legale e di trattative, fra alti e bassi, prima di arrivare, il 4 marzo scorso, a un accordo preliminare in Tribunale a Milano tra
ArcelorMittal e Ilva in amministrazione straordinaria. Si delinea un percorso in cui si prevede che a novembre 2020 ci sia una nuova compagine con la partecipazione dello Stato e la ridefinizione dell’assetto produttivo. Col debutto a Taranto del forno elettrico, alimentato da rottame e preridotto di ferro, accanto agli altiforni tradizionali, che producono la ghisa dalla fusione dei minerali. Percorso da costruire nei mesi successivi a marzo, con un primo step inportante a maggio sulla forza lavoro da impiegare sia nel transitorio che a regime.
Ma il Covid spazza tutto via. Nessuna trattativa ulteriore dopo la prima intesa di marzo, niente step occupazionale a maggio, nessun nuovo piano industriale da parte di ArcelorMittal, che nel frattempo non paga nemmeno l’ultima rata trimestrale del canone di fitto a Ilva in as, benché la rata sia stata dimezzata rispetto ai 45 milioni iniziali.
C’è invece nuova, massiccia cassa integrazione. A Taranto viene chiesta per 8175 dipendenti ed attuata per oltre 3200. Sempre a Taranto viene fermato un altoforno, il 2: si scende a soli due altiforni accesi, l’1 e il 4, mentre la produzione crolla al minimo storico (7mila tonnellate di ghisa al giorno). Inoltre, gli ordini non ci sono e l’azienda prima annuncia la ripartenza di alcuni impianti, dichiarando che per un periodo compreso tra le 3 e le 7 settimane rientreranno in fabbrica dalla cassa circa 630 addetti, e poi, nel giro di appena qualche giorno, fa retromarcia e blocca tutto. Un precipizio, mentre la corporate ArcelorMittal non se la passa certo meglio e chiude il primo trimestre 2020 con una perdita di 1,1 miliardi di dollari. (AGI)