Di Vittorio Campagna
Enrico VI è in Italia. Di vittoria in vittoria e con ricchi bottini, le milizie dell’imperatore, al comando del maresciallo Enrico di Kalden (Calandrino?), avanzano verso Palermo. L’Imperatore è esortato a far presto a raggiungere Palermo perché gli uomini della flotta imperiale coalizzata non hanno più motivo di restare, e desiderano ritornare alle loro case.
Salerno è distrutta e saccheggiata al pari delle altre città e castelli che hanno opposto resistenza; ma la città ippocratica è stata considerata da Enrico VI degna di essere ricostruita in virtù del suo passato e della sua cultura: <<Est data Dipuldo renovandi cura Salernum nec non totius tradita iura soli>> (“È affidato a Diopoldo il compito di ricostruire Salerno, come pure il potere su tutta la zona”) (vv.1187-1188). A Diopoldo, quindi, l’imperatore affida anche tutta la circoscrizione della città, il principato e il giustizierato.
Pietro riprende l’apologia a favore del condottiero teutonico, come riporta la Particola XXXVIII: <<Gesta Dipuldi>> “Le imprese di Diopoldo”, che avevamo lasciato alla fine del primo libro. Lo definisce: <<Vir pure fidei, vir magni nominis, omnis milicie titulus, imperiale decus, quem nec promissum numerosi ponderis aurum movit nec potuit sollicitare timor, hostibus in mediis quam plurima castra subegit, egregius alacer vicit in ense viros.>> (“Uomo di limpida fede, eroe di chiara fama, fregiato di ogni titolo militare, onore dell’impero, che né le promesse di grandi quantità d’oro riuscirono a corrompere, né il timore poté mai turbare, tantissime rocche distrusse pur tra tanti nemici, con destrezza sbaragliò in battaglia uomini valorosi”) (vv.1189-1194). In effetti, la poetica di codesta particola è un elogio alla sua persona, di uomo leale, fedele, valoroso.
Il poeta racconta, ora, un’altra impresa di Diopoldo, dopo quella di Montecassino e la cattura di Riccardo di Calvi presso Capua (v. particola XXXV). Trattasi del vittorioso scontro con Guido di Castelvecchio, il quale forte di cinquemila uomini gli voleva sottrarre il ricco bottino di cavalli e di pecore che si era procurato con le molte escursioni nel territorio di Capua contro i nemici dell’imperatore. Il teutonico nel vedere la superiorità numerica dell’avversario esorta i suoi con queste parole: <<Nec vos aspectus numerosi terreat hostis: femineos tellus parturit ista viros>> (“Non v’atterrisca il vedere tanti nemici: uomini fiacchi partorisce questa terra”) (vv.1213-1214); e aggiunge: <<Hii pecudes sed nos dicimur esse sues>> (“Questi son Tancredini, ma noi siamo imperiali”) (v.1217). E allora <<Mille viros flexa procer unus inebriat asta, et ligat et tondit mille vir unus oves.>> (“Da solo l’eroe attaccando con la lancia mille uomini stordisce, e da solo quell’uomo valoroso mille pecore lega e tosa”) (vv.1225-1226). È l’esaltazione di un condottiero che deve essere degno dell’invincibile imperatore ed eroe petriano.
Una nota personale. Qualche studioso interpreta la frase: <<Mille pecore lega e tosa>>, ritenendola una vera tosatura delle mille pecore, legando l’atto alle conciature della lana per intessere le “cotte di maglie”. In realtà, secondo il mio modesto pensiero, è solo un’allegoria o iperbole, avendo Diopoldo in precedenza paragonato i tancredini a pecore paurose da tosare (vv.1218-1219).
N.B. La traduzione dal latino del prof. Carlo Manzione, è offerta per gentile concessione dell’ Ass. ne Culturale “Ebolus dulce solum, Storia e Arte al servizio della Cultura“; mentre, l’articolo è tratto dal libro dell’autore, Vittorio Campagna: <<Pietro da Eboli, Vate latino della letteratura italiana>>, de “L’Aurore edizioni”, Torchiara 2018.