Avvocato Martina.
Forse non era proprio il migliore legale della città, ma sicuramente era il più elegante con il suo portamento sempre eretto, passo felpato da gazzella, capelli brizzolati, occhi celesti, mani affusolate e statura oltre la media che lo caratterizzavano come un uomo di bell’aspetto e stravagante nel vestire, con l’immancabile bastone, tanto che il suo armadio era ben assortito di abiti eleganti e sportivi, molto colorati ma sempre scelti con buon gusto ed indossati con disinvoltura, signorilità ed una particolare accuratezza che riponeva pure nell’indossare un enorme papillon sgargiante da abbinare al vestito.
Scarpe in stile inglese, lo si poteva facilmente incontrare nei paraggi di Piazza Sant’Oronzo, centro storico della città, con la sua bella borsa portadocumenti, non di pura pelle ma di tessuto colorato, sempre intonato al vestito che indossava senza dimenticare anche le scarpe nere aperte dai lati che calzava sempre con lo stesso vestito grigio sgualcito ed una camicia aperta sul collo privo com’era di papillon ed altri tipi di cravatte mentre passeggiava frequentemente in un piccolo parco ubicato tra il circolo tennis e l’università leccese, avanti ed indietro a passo veloce, fermandosi ogni tanto per raccogliere da terra pezzettini di carta straccia che raccoglieva e rigettava sistematicamente dove gli aveva raccolti, riprendendo infaticabilmente il suo vagabondare.
Sguardo perso nel vuoto, barba incolta e trasandato al punto giusto, nel parlare denotava oltre ad una velocità e proprietà di linguaggio, un’assenza totale dal mondo circostante, mentre dai suoi occhi traspariva il suo passato pesante come un fardello fatto di ansie e travagli sopportato a causa dei continui tradimenti della moglie, sorpresa a letto con l’amante, come si narrava all’epoca.
In città, la voce del tradimento perpetrato dalla consorte, fece subito scalpore, motivo per cui fu ripetutamente deriso dai passanti, un vero e proprio oggetto di scherno, per provocarlo bastava chiamarlo a voce alta: “Avvocato…”.
Dal taschino della giacca estraeva la sua pipa in radica di ciliegio ed impugnatela dal fornello, fingeva di usarla come una pistola, mentre si chinava prontamente nascondendosi dietro le auto in sosta, quasi per evitare eventuali proiettili sparati dalle auto che erano ferme davanti a lui, dove si erano appostati i suoi nemici, ovvero giovinastri della peggiore specie ed il tutto era sopportato degnamente.
Maltrattato perfino dal figlio, forse pure percosso, si ritrovava in preda alla sua solitudine a vagare tra le panchine del parco, da tutti abbandonato.
Personalmente, ricordo come se fosse ieri, di averlo incontrato spesso all’uscita dalla mia scuola ed a volte mi fermavo ad osservarlo basita e salutarlo, sia che fossi sola o in compagnia dei miei amici inseparabili. Come dimenticarlo… era uno spettacolo vivente per tutti noi e coloro che lo incontravano per la via!
La Giulia
La Giulia era il soprannome di una donna eccentrica vissuta sino agli anni sessanta. Indossava sempre un abito celeste a fiori, tipo sottoveste, molto larga e lunga fino alle caviglie con in vita o al collo una cintura dalla quale pendeva un grosso mazzo di chiavi: quelle della città.
Sotto il vestito liso non indossava le mutande e se qualche ragazzino si divertiva a canzonarla, lo sbeffeggiava mostrando le sue raggrinzite intime nudità.
Era solita girovagare trascinando lentamente i piedi dentro vecchie pantofole, per le strade della città, spesso la si poteva incontrare nelle poste centrali, nelle vicinanze del mercato coperto dove raccoglieva sparsi per terra moduli di conti correnti postali esibendoli in pubblico come se fossero titoli di stato o certificati di eredità ricevuti da casa Savoia apostrofando in malo modo coloro che la schernivano:
“Giulia hai perso la causa!”.
Raccontava di frequentare il sovrano sabaudo, il principe Umberto di Savoia con cui era imparentata, il quale le affidava diversi miliardi da utilizzare necessariamente per abbellire Lecce, della quale si riteneva custode, tanto da possederne le famose chiavi.
La Giulia si aggirava per la città maledicendo la sua pessima situazione economica, conseguenza di una causa giudiziaria persa.
Da giovane era una donna vitale ed allegra e non era mai stata una pazza furiosa da manicomio, ma a ridurla così, forse, era stata la stessa società in cui viveva.
Don Giuliu Pampasciulu
Giulio Brunetti, allietava con le sue battute i passanti che incontrava per strada. Il suo nome d’arte, per così dire era Don Giuliu Pampasciulu. Un giorno trovandosi chissà per quale ragione a Roma ed esibendosi anche lì con le sue buffe uscite, fu scambiato per una spia del nemico ed arrestato.
La cosa si riseppe a Lecce e fu un coro di risate e qualche commento mordace non fu certo risparmiato alla Questura Romana.
Vissuto sino agli anni cinquanta, ostentava un benessere mai conosciuto prima, sempre con una paglietta in testa e col garofano all’occhiello, si atteggiava a nobile con il vizio del fumo che appagava con le sigarette accuratamente confezionate con tabacco di cicche raccolte da terra, adoperando un bastone a punta.
Maria te li musci
Di statura minuta, si muoveva a scatti ed era sempre circondata sia in casa che fuori da un esercito di gatti. Abitava nel centro storico di Lecce, in una casa di due stanze con bagnetto ed una porta d’ingresso a vetri che si affacciava sulla strada.
Quando la si incontrava nei pressi di casa sua e la si apostrofava, urlando: Maria te li musci…, ella con velocità sorprendente, entrava in casa ed armata di una miriade di oggetti, come bottiglie, lattine di bibite vuote, pietre, lampadine, li lanciava sui malcapitati, rispondendo così alle loro provocazioni.
Era continuamente derisa, ma se qualcuno la ignorava, veniva subito apostrofato con frasi come : “ Giovanotto, sapete dirmi che ore sono per favore?”, come per dire: “Guarda che io son qua, sotto l’uscio di casa, non mi hai visto?”
Un vero e proprio spettacolo nello spettacolo!
La zia Lena
Fisicamente quasi perfetta, la si poteva notare sia per il suo abbigliamento sempre sportivo che per il suo modo confusionario di esporre i suoi futili problemi.
Scarpe bianche da tennista e calze bianche bassissime fino quasi alle caviglie, gonna ampia bleu lunga, lievemente sotto al ginocchio con camicetta bianca e cappello originale, era facile incontrarla in giro per Lecce in bicicletta, ben eretta sul sellino, prudente alla guida o a San Cataldo, in estate ed anche al supermercato sempre indaffarata a frugare tra gli scaffali, con aria incerta sugli acquisti da fare irrimediabilmente e la sua lentezza nel parlare, la sua eterna indecisione unita alla sobrietà con cui esponeva i suoi problemi erano disarmanti.
Il suo nome è fittizio… si dice che era stata avviata sulla strada della prostituzione già sin da giovane, una vera e propria violenza per lei, dal momento che un nobile, forse un conte, si era invaghito perdutamente di lei al punto da chiederla in sposa.
Una piccola curiosità: all’epoca era la prima svampita italiana, un personaggio magistralmente interpretato dall’attrice Sandra Milo in versione nostrana e ruspante. I suoi modi ed il suo aspetto gradevoli, sono indimenticati ed indimenticabili!