La particola XII racconta il <<Primus imperatoris ingressus in regnum Sicilie>> (“Il primo ingresso dell’imperatore nel Regno di Sicilia”). Enrico VI, creato imperatore (14 aprile 1191), si appresta a invadere il Regno di Sicilia per spodestare Tancredi d’Altavilla, ritenuto usurpatore <<Non patitur falso laniari principe regnum, quod sibi per patrios iura dedere gradus>> (vv.308-309) (“Non tollera che sia da un falso principe dilaniato il regno, che a lui han dato i diritti per successione paterna”) e dissipatore del regno. Il poeta prepara il lettore circa la dignità giuridica e morale del neoeletto Svevo dovendo ereditare la gloria dei suoi avi; esalta, quindi, le gesta di questi ultimi, specie quelle di Federico I Barbarossa, padre di Enrico VI: <<Si numerare velis genitos a Cesare magno, In medio Carolus fulminat orbe tuus>> (vv.312-313) (“Se vuoi ricordare tutti discendenti del grande Cesare, in mezzo ad essi risplende come folgore Carlo, il tuo avo”), prevedendo che il figlio l’avrebbe imitato in grandezza. I versi di questa particola, infatti, sono un inno agli imperatori del S.R.I. ascendenti di Enrico VI, da Carlo Magno fino a suo padre, Federico, per giustificare il diritto di successione al trono di Sicilia dell’ultimo Svevo, ma anche difendere i diritti dell’Impero che gli avi gli hanno lasciato in eredità.
Pietro, rivolgendosi a Enrico VI, scrive che suo padre, il Barbarossa: <<Cuncta sibi, quecunque vides, servire coegit: Vicit in hoc Carulos, fortior hasta, suos.>> (vv.316-317 ) (”Tutto quel che tu vedi piegò al suo dominio: in ciò egli, più forte nelle armi, superò i suoi avi di nome Carlo”). Federico I, secondo il poeta, superò in armi tutti gli imperatori chiamati Carlo; da Carlo Magno, a Carlo il Calvo e a Carlo il Grosso.
Per rafforzare l’eroicità del Barbarossa, il poeta fa notare che dopo le numerose conquiste gli parve la terra troppo piccola per le sue imprese; nutrì il bisogno di grandi disegni al servizio di Dio. Rispose al richiamo della terza crociata (1189-1192); e pertanto, <<Alter in hoc Moyses, aliam populosus Egyptum deserit , ut redimat regna domumque Dei>> (vv.322-323) (“Come novello Mosè, da molta gente seguito, l’Egitto abbandona per redimere il regno e la casa di Dio”), imitò il condottiero ebreo. È una similitudine con Mosè un po’ forzata. Mosè lasciò l’Egitto per liberare Israele, e condurre il popolo ebraico nella terra che Dio gli aveva concesso in eredità; similmente Federico Barbarossa, partì per la Terra Santa per liberare il Sacro Sepolcro di Cristo e le terre che il Salvatore aveva calpestato occupate dall’islam, ma senza riuscirci. Anzi, il Barbarossa perse persino la vita a dir poco in maniera ingloriosa.
Il poeta, infine, esorta Enrico VI: <<Augustos imitare tuos, defende tuum ius, coniugis et magni iura tuere patris>> (vv.330-331) (“Emula i tuoi augusti, difendi quel per legge ti spetta, proteggi i diritti della sposa e del padre glorioso”); a ripeterne le gesta. È l’invito e l’autorizzazione a invadere il Regno di Sicilia, cosa che farà per la prima volta a metà Maggio del 1191, che è anche l’inizio di una tremenda guerra fratricida tra due Altavilla (Tancredi e Costanza) che durerà fino al 1194.
Per la cronaca, il Barbarossa morirà miseramente il 10 giugno 1190, in un fiume dell’Anatolia dove l’acqua gli raggiungeva appena le ginocchia. Nella particola cinquanta Pietro riuscirà a trasformare codesta morte ingloriosa in una dipartita eterea per un trionfo celestiale.