A.D. 1189, novembre. Matteo d’Aiello convince Tancredi a diventare Re di Sicilia.
Che Pietro attribuisca a Matteo il successo iniziale di Tancredi è provato anche dal tono della lettera che il vicecancelliere avrebbe scritto all’aspirante re per farlo giungere a Palermo per l’investitura regale. Ancora una volta Matteo è dipinto come un uomo senza scrupoli e immorale.
Il vice cancelliere nei rapporti epistolari si proclama il fautore del successo. Ancora un atto notturno; infatti, anche la lettera è scritta di notte: <<Hec in nocturnis verba fuere notis:,,,>> (v.141); (“Queste furono le parole che di notte egli scrisse:…”), come se stesse commettendo una rapina, riconoscendo che stava usurpando il trono a favore di un illegittimo, Tancredi. L’introduzione è chiara: <<Hanc tibi Matheus mitto, Tancrede Salutem, quam, cito ni venias, qui ferat, alter erit>> (vv: 142-143); (“Io, Matteo, offro a te, o Tancredi, questa fortuna di cui altri godrà se non viene subito”). E poi aggiunge: <<Ipse tibi scribo, qui tibi regna dabo. Per me regnabis, per me tibi regna debuntur>> (vv.147-148); (“Io ti scrivo, proprio io che ti darò il regno. Grazie a me tu regnerai, grazie a me ti sarà dato il potere”). Matteo è descritto come il padrone del destino del Regno. È evidente che cancelliere, secondo la veduta dell’Ebolitano, attribuisca a se il successo con quel <<Io, Matteo, offro a te… questa fortuna… proprio io che ti darò il regno >>; non fa appello al diritto legale di successione, ma alla sua capacità di sovvertire l’odine delle cose; infatti, la chiama “fortuna”, cioè sarà un puro caso se il progetto avrà successo, per la sua abilità.
Matteo invita Tancredi a presentarsi alla corte di Palermo senza indugio per essere eletto Re, prima che altri aventi diritto lo precedano, specie sua zia Costanza con Enrico VI, <<Absenti domino…>> (v.154); grazie (“Al padrone assente…”). Deve dimenticare altri giuramenti fatti (quello di Troia del 1188), bandire la lealtà se la possedesse, e di non trattenersi dallo spergiuro. Nel discorso, emerge pure che Tancredi non sa essere leale, quando il poeta fa dire a Matteo: <<Nec te, si qua fides, nec te periuria tardent. Gloria regnandi cuncta licere facit>> (vv.156-157); (“Non ti trattengano la lealtà, se mai c’è n’è in te: ogni cosa rende legittima la gloria del potere”); come a dire che in un figlio nato da donna non sposata non può esserci lealtà; e il fine per raggiungere il potere giustifica ogni mezzo. Pietro anticipa il pensiero di Macchiavelli di tre secoli circa il comportamento di un “Principe” in politica.
Per spingerlo al decisivo passo, Matteo, quindi, invita Tancredi a essere sleale come alcuni principi bizantini; i quali, pur di ottenere il potere avevano persino ucciso: <<Ipse (Andronico) cruentato sceptra nepote tulit>> (v.159); (“Eppure proprio lui uccise il nipote e s’impadronì dello scettro”). Aggiunge che per il potere <<Unum natorum – si phas foret atque liceret!>> (v.162) (“Anche un figlio (si deve uccidere), se fosse lecito e necessario”).
Per mostrare atrocità nell’acquistare il potere, Matteo prende come esempio se stesso, quando afferma: <<Ipse ego, triste pedes quotiens sinthoma perurit, non hominum dubito sanguinis esse reus>> (vv.164-165) (“Anch’io, ogni volta che il male crudele mi tormenta i piedi, non esito a macchiarmi di sangue umano”. Matteo soffriva di gotta e, secondo Pietro, per curarsi immergeva i suoi piedi nel sangue umano ancora caldo (Carta 8bis).
Il lettore deve tener conto sempre dell’esigenza della poesia elegiaca medioevale; anche in questo caso, il poeta ricorre a iperbole o esagerazioni ma rese reali agli occhi del lettore; il Matteo storico, come ho avuto modo di esporre, non è il Matteo di Pietro e così vale anche per Tancredi, capace comandante.