TREDICESIMO APPUNTAMENTO CON LA RASSEGNA LETTERARIA SUL “DE REBUS SICULIS CARMEN AD HONOREM AUGUSTI”
Cultura

TREDICESIMO APPUNTAMENTO CON LA RASSEGNA LETTERARIA SUL “DE REBUS SICULIS CARMEN AD HONOREM AUGUSTI”

Correva ancora la fine dell’anno 1189. Il racconto della particola VII inizia con le incertezze di Tancredi, se accettare o meno l’invito di Matteo a diventare Re, riconoscendosi indegno di rivestire quella carica e tentenna: <<Stare pudet, properare timet, cor fiuctuat intus>> (v.168);  (“Si vergogna di non muoversi, teme di precipitarsi, dentro gli si agita il cuore”).

Inoltre, <<Corporis exigui memori sub mente pudorem>> (v.172); (“Pensa alla sua misera corporatura e se ne vergogna”); si vergogna del suo corpo, ma alla fine sbarca al castello reale detto Favara con i suoi figli e giunge a Palermo alle prime luci dell’alba, quasi di nascosto.

Una parentesi per il lettore. In Sicilia ci furono e sono parecchie le località denominate Favara. Qui, non si parla della nota cittadina di mare in provincia d’Agrigento, ma del “Castello reale”, detto Favara o Mare dolce, alle porte di Palermo.

Tancredi giunto nella capitale è illegittimamente unto Re (1189) secondo i sostenitori di Costanza ed Enrico VI. Tutta la scena dell’incoronazione è presentata in maniera sarcastica; il cerimoniale non rispecchia le nobili procedure di Corte e non presenta nulla di regale. Secondo il poeta, falsi giuramenti e false promesse escono dalla bocca del novello Re. Da qui riprendono le ingiurie colorite di Pietro per bollare Tancredi come re indegno, fino a scomodare le divinità infernali[1] perché si ribellino a tanto affronto. Il poeta inveisce prima contro Matteo, autore dell’impostura e poi dà inizio al grave vilipendio a danno di Tancredi: <<O nova pompa doli, species nova fraudis inique, non dubitas nano tradere regna tuo?>> (vv.182-183); (“Oh nuovo spettacolo di malafede, nuova specie d’iniqua frode, non esiti ad affidare il regno al tuo “nano”?). Ricordando le “Metamorfosi ovidiane” descritte nel prologo con le miniature della “carta 2” (V. l’articolo del 7/12/2019: n.d.r.), gli epiteti dell’Ebolitano a carico di Tancredi diventano sempre più “pesanti”: <<Ecce vetus monstrum, nature crimen aborsum; ecce coronatur simia, turpis homo!… (vv.184-185); (“Ecco il vecchio mostro, un empio aborto della natura; ecco, è incoronata la scimmia, uno schifo di uomo!”). Pertanto, Pietro con questi appellativi dà significato alle “Metamorfosi ovidiane” che ha come oggetto Tancredi: un mostro e vecchio, un empio aborto, la scimmia che si trasforma in uno schifo d’uomo, diventato essere umano e persino “Re”. Non contento, Pietro scomoda persino i Satiri: <<Exclament Satiri: “Semivir ecce venit”>> (v.187); (“Dicano ad alta voce i Satiri: <<Ecco, arriva il mezzo uomo>>”).

Il poeta conclude con un lamento sulla “Dolce Palermo” (v. 194), definita paradiso ma insozzato dall’”Iscariota Matteo” (v.196) per la sua scellerata scelta del nuovo re; mentre ha modo di ribadire ancora una volta la nullità di Tancredi: <<Pro Iove semivirum, magno pro Cesare manum Suscipis in sceptrum !>> (vv.198-199); (“Un mezzo uomo al posto di Giove, un Nano al posto del grande Cesare (Enrico VI) poni sul trono”).

In questa particola, sono presentati due “politici” che lottano fra loro con armi diverse e ambiti opposti: Matteo d’Aiello e Pietro da Eboli, i quali contendono su un terzo personaggio: Re Tancredi. Matteo, come “politico interessato” essendo vicecancelliere del Regno, è a favore di Tancredi, comunque di sangue reale perché nipote di Re Ruggero II, il fondatore del Regno di Sicilia; dall’altra, Pietro che con la penna difende gli interessi degli “Svevi”. Pietro è per Enrico VI ciò che sarà Alexandre Dumas per Garibaldi nel 1860: un Vate di parte!

[1] Le tre furie o Erinni: Aletto, Tisifone e Megera.