A.D. 1189, intorno al 20 di novembre già si avvertono le prime schermaglie per la lotta alla successione al trono. Ogni schieramento ha il suo aspirante. La particola V inizia col pretendente più forte: Tancredi, supportato dal vicecancelliere Matteo d’Aiello che in questa sede diventa riferimento principale. Il capitolo inizia col discorso notturno di quest’ultimo che avrebbe fatto all’Arcivescovo di Palermo, Gualtiero D’Offamill, favorevole a Costanza e a Enrico VI, per convincerlo a far eleggere Tancredi e impedire che il regno passasse a stranieri (tedeschi).
Il discorso del vicecancelliere inizia con l’adulazione e l’esaltazione della figura del presule palermitano, definendola come l’anima stessa della città: <<Sic ait: Alme pater lux regni, gloria cleri, Utile consilium, pastor et urbis honor Pacis iter rationis amor, constantia veri, Respice consiliis regna relicta tuis>> (vv.112-115); (“Padre santo… luce del regno… gloria del clero… fonte di saggezza… pastore e decoro della città… via di pace… amico della ragione… costante del vero, veglia con i tuoi consigli sui derelitti regni”). Infatti, c’era convinzione comune che persuadendo il presule anche il clero e i nobili del regno avrebbero parteggiato per Tancredi.
È bene che il lettore noti sin da ora come Pietro, poeta di parte, “dipinga” l’indole di Matteo d’Aiello; emerge subito l’esagerato disprezzo per la sua figura poiché gli attribuisce un comportamento subdolo, immortalando il suo agire all’imbrunire, di nascosto, e lo paragona a Giuda traditore; infatti, afferma che: <<Sol erat occiduus; faciente crepuscula Phebo,venit Scariothis flens, ubi presul erat>> (vv.110-111) (“Tramontava il sole e sul far della sera venne piangendo l’Iscariota alla dimora del presule”).
Il discorso di Matteo a Gualtiero, poi, si sposta su Enrico VI che sarebbe diventato Re di Sicilia se fosse stata scelta Costanza d’Altavilla come erede al trono, riconoscendone, quindi, il diritto legale.
Il vicecancelliere definisce lo svevo “collerico”, “rabbioso”: <<Disce prius mores Augusti, disce furorem! Teutonicam rabiem…>> (v.120-121) (“Prima rifletti sul carattere di Augusto, apprendine l’ira!… La rabbia teutonica”). Dice anche, che avrebbe imposto la lingua tedesca”: <<Discere barbaricos barbarizare sonos>> (v.123) (“Imparare a pronunciare parole barbariche”). Il d’Aiello, quindi, mette in guardia il presule e gli suggerisce la più opportuna candidatura di Tancredi che pur con i suoi limiti (figlio illegittimo da parte di madre non sposata), superabili perché nipote diretto del primo “re” e “Padre del Regno”, Ruggero II; egli avrebbe dato continuità alla dinastia Normanna che aveva creato il Regno di Sicilia. Con queste parole il D’Aiello convince l’Arcivescovo quando afferma: <<Aptus ad hoc Tancredus erit, de germine iusto>> (V.130) (“A regnare sarà adatto Tencredi, di legittima origine”), il quale dà il suo “assenso”: <<…Et legit… fidem>> (v.139) . Pietro, però, non usa il verbo “convincere”, ma il verbo latino “adulterat” (v.138), cioè “seduce”, nel senso di “carpire” la fiducia del presule. Pietro, da codesta particola in poi, mostrerà un’avversione esagerata verso Matteo d’Aiello solo perché, quest’ultimo, ha provato a salvaguardare la dinastia normanna sul Regno di Sicilia. Gli attribuirà, come vedremo più avanti, ogni tipo di nefandezza.
Eppure, il poeta, agli occhi del lettore, deve essere visto come un “Corrispondente di guerra” ante litteram; un “Inviato di un giornale” perché vive gli eventi in prima persona essendo coevo ai fatti e ai personaggi. I suoi limiti, come “Agiografo di parte” eccessivamente coinvolto, sono superati dal racconto di eventi inediti non riportati da altri “storici” dopo di lui. Li evidenzieremo d’appresso.