Enrico VI lasciato dietro di se “Rocca d’Arce” e gli altri castelli, distrutti per la loro fedeltà a Tancredi e si addentra nel cuore del Regno di Sicilia senza colpo ferire. La particola Particula XIV dal titolo. <<Urbs neapolis obsessa reistit>> “La città di Napoli assediata oppone resistenza”, descrive la tappa successiva, l’infruttuoso assedio alla città di Napoli, anch’essa “tancredina”, che lo costringerà a far ritorno in patria e rimandare la conquista del regno siciliano.
L’imperatore prima dell’assedio alla città partenopea fa una personale ricognizione, essendo la città ben fortificata da mura, fossati, torri e soldati, pone l’assedio da tutti i lati, prendendo tutte le contromisure necessarie, costruendo persino una macchina da guerra alta quanto le mura della città.
Già all’inizio della particola il poeta, per giustificare l’amara sconfitta subita dallo svevo, riferendosi alla “città personificata” napoletana, afferma: <<Et, nisi pugnassent munera, victa fores>> (v.355); (“E saresti stata vinta, se per te non avessero deciso i doni”).
Il Poeta, ora, descrive la disposizione dei soldati imperiali attorno alla citta prima dell’attacco. Intanto <<Machina construitur, celsis se menibus equans>> (v.360) (“Vien costruita una macchina che eguagli in altezza le mura”); è la costruzione di una macchina da guerra e di vedetta perché permetta di osservare l’interno delle stesse mura. Per descrivere l’accerchiamento della citta cita i popoli che vi partecipano. <<Ex hac Colonii pugnant, hac parte Boemi, hac dux spoleti menia temptat eques>> (v.362) (“Da una parte combattono i Coloniensi, da un’altra i Boemi, in altro punto il duca di Spoleto, a cavallo assedia le mura”). Infine, descrive alcune fasi della battaglia: <<Hic notat in muro, sinuato cominus arcu… Unus erat, qui saxa suos iactabat in hostes<< (vv. 366,370) (“Questi con l’arco teso colpisce su un muro da vicino… C’era uno che scagliava sassi contro i suoi nemici”).
E poi, una verità storica, pronunciata da un difensore delle mura partenopee che il poeta fa fatica a plagiare in qualcosa di positivo per l’Imperatore: il ritiro dall’assedio: <<Iam sine cesarie vel iam sine Cesare facti, vix alacer de tot milibus unus erit>> (vv.372-373) (“Ridotti come siete ormai senza cesarie e senza Cesare (ammalato: n.d.a.), a stento un sol prode resterà di tante migliaia”). E sì! L’imperatore gravemente ammalato, da lì a poco sarà costretto ad abbandonare l’assedio e tornare in Germania a mani vuote.
È pur vero che Tancredi e suo cognato Riccardo, comandante in prima della resistenza, avevano elargito doni per acquistarsi l’amicizia di pochi baroni e conti ribelli, come anche presso gli stessi Napoletani, ma il merito della resistenza va al valore militare dei difensori Partenopei, al suo comandate, Riccardo d’Acerra e alla pestilenza che aveva colpito l’esercito tedesco, la quale è sempre l’effetto di un lungo assedio. Del resto, era comune elargire doni per favorire per una sottomissione pacifica.
Il poeta, pertanto, ancora una volta non da onore ai nemici dello Svevo, pur sapendo che in campo di battaglia non scendono i doni, ma l’eroismo dei soldati, la buona tattica e la buona sorte. Il giudizio è unilaterale; pertanto, il contenuto della sua opera perde efficacia dal punto di vista morale e per la circostanza, pur non tradendo la “storia” non menziona né la capacità difensiva dei partenopei, né tantomeno una delle cause principali della sconfitta; anzi la sfiora soltanto: la peste tra i soldati che colpirà anche l’imperatore. Del resto, è di rado che un “vate” non dia i giusti meriti o esalti gli avversari del proprio “campione” per giustificarne la sconfitta.