Per i salvataggi delle banche lo Stato ha speso 10 miliardi in 4 anni
Il conto, che si basa su uno studio dell’Osservatorio dell’Università Cattolica di Milano, potrebbe lievitare a oltre 15-20 miliardi di euro.
Negli ultimi 4 anni lo Stato italiano, in termini di liquidità, ha speso oltre 10 miliardi di euro per i salvataggi bancari, che potrebbero lievitare a oltre 15-20 miliardi di euro. Il conto definitivo, secondo quanto si rileva da una ricostruzione dell’Osservatorio dell’Università Cattolica di Milano, dipende da due incognite.
In primo luogo da quanto si ricaverà dalla vendite delle sofferenze delle Banche Venete per rientrare dei 6,4 miliardi di euro di garanzie del governo concessi a Banca Intesa. Sempre sulle banche Venete ci sono poi anche altri 12,4 miliardi di garanzie statali, che non è ancora possibile sapere se verranno impiegate o meno. Comunque finora lo Stato è intervenuto, o si è impegnato a intervenire per coprire parzialmente le perdite di Mps e delle 2 banche venete e, più in generale, per salvaguardare, in caso di crack bancario, i risparmiatori depositanti sopra i 100 mila euro (i depositanti con meno di 100 mila euro sono coperti dai rischi), oltre agli azionisti e agli obbligazionisti ritenuti truffati.
Ecco comunque, più nel dettaglio, la storia dei principali salvataggi, pubblici e privati di banche italiane degli ultimi 4 anni.
LA RISOLUZIONE DELLE 4 BANCHE – L’era dei salvataggi con perdite anche per i piccoli risparmiatori è iniziata in Italia nel weekend del 21-22 novembre 2015 quando vennero messe in risoluzione 4 piccole banche (Carichieti, CariFerrara, Banca Marche e Banca Etruria).
Fino ad allora i salvataggi erano stati guidati con rapidità dalla Banca d’Italia e dal Tesoro, accollando le banche in difficoltà ad altri istituti e scaricando cosi’ i costi a livello di sistema generale. Ma a partire dal caso di Banche Venete la strada intrapresa è stata quella del ‘burden sharing, la procedura disciplinata da una direttiva Ue, che prevede il coinvolgimento anche degli obbligazionisti e non solo degli azionisti. La decisione scateno’ furiose polemiche e, nel 2017, un duro attacco da parte del governo guidato da Matteo Renzi alla vigilanza di Bankitalia.
Di fatto Renzi disse di aver commesso “un errore nell’essersi affidato alla Banca d’Italia” per i controlli e corse ai ripari varando, dopo una discussione con la Ue, un meccanismo di ristoro per i risparmiatori. Il risultato fu che il conto finale di oltre 5 miliardi di euro venne caricato sul Fondo di Risoluzione, pagato dalle altre banche private, mentre le 4 banche vennero cedute a Ubi per un euro. I soldi del Fondo sono serviti a ricapitalizzare le 4 banche, il cui capitale è stato azzerato, a coprire le perdite derivanti dai crediti sofferenti e a creare l’istituto destinato al recupero di tali crediti (le cosiddette bad bank). Non c’è stato quindi alcun contributo in termini di liquidità da parte dello Stato.
LA BUFERA MONTE DEI PASCHI (MPS) – L’istituto senese finisce nella bufera nel 2013 con la scoperta di bilanci ritoccati per coprire i costi dell’operazione Antonveneta. Arrivano 4 anni di inchieste e aumenti di capitale oltre a lunghe interlocuzioni fra Francoforte, Bruxelles, la banca e le autorità italiane. Infine, a fine 2016, dopo non aver passato lo stress test, il fallimento del piano di salvataggio con risorse private e la regia di Jp Morgan, condizionato anche dall’incertezza per la fine del governo Renzi, caduto nel dicembre 2006 dopo l’esito negativo del referendum sulla riforma costituzionale.
Il 21 dicembre il nuovo governo Gentiloni è costretto a correre in salvataggio del Monte con 5,4 miliardi (di cui 1,5 miliardi di rimborso agli obbligazionisti). Il Tesoro, dopo la ricapitalizzazione eseguita a luglio 2017, è ora l’azionista di maggioranza del Monte con quasi il 70%, quota che dovrà dismettere fra qualche anno ma che per ora ha perso molto del suo valore, visto il crollo dei valori azionari.
Diversamente da quanto successo alle 4 banche del Centro Italia, nel caso di Mps lo Stato ha finanziato parte dell’operazione, attingendo a un fondo di 20 miliardi di euro presi a debito varato a questo scopo. Di questi, circa 3,9 sono stati spesi per la ricapitalizzazione e fino a un massimo di massimo 1,5 miliardi sono stati riservati al ristoro degli investitori al dettaglio che detengono le passività subordinate della banca oggetto di conversione in azioni nell’ambito del burden sharing. Azionisti e obbligazionisti hanno da parte loro contribuito per altri 2,8 miliardi, secondo il principio della condivisione degli oneri previsto dalla normativa dell’Ue. A pagare sono stati quindi sia i contribuenti sia i privati, e anche in questo caso i soci proprietari hanno visto il proprio capitale azzerarsi mentre parte dei risparmiatori è stato tutelato.
IL CASO DELLE BANCHE VENETE – Anche la Popolare di Vicenza e Veneto Banca cadono per un mix di cattiva gestione ed effetti della crisi economica e dopo i fallimenti di una serie di piani di rilancio, che iniziano nel 2013 e vengono alle luce nelle ispezioni della vigilanza del 2015. Il governo, dopo il fallimento dell’aumento di capitale nel 2016, auspica una soluzione privata e, sotto la sua regia, il fondo Atlante, cui partecipano le banche e la Cdp rileva la proprietà dei due istituti con un esborso totale di 3,5 miliardi che perderà del tutto.
La fuga dei depositanti e la conseguente crisi di liquidità portano lo Stato a dover garantire obbligazioni delle due banche per complessivi 8,6 miliardi nel febbraio 2017 ma, a marzo, i tentativi di reperire nuove risorse private non riescono e a giugno le banche vengono poste in liquidazione. La Commissione Ue e la Bce non permettono infatti la ricapitalizzazione precauzionale. Intesa Sanpaolo rileva cosi’ i due istituti evitandone la chiusura e le pesanti ricadute sull’economia locale e nazionale.
Per questo lo Stato versa a Intesa 4,8 miliardi di euro per la cassa e 6,4 miliardi ulteriori in garanzie, contando di recuperare il denaro attraverso la vendita, negli anni, delle sofferenze. L’operazione più importante, in termini di contributo dello Stato, è stata quella che ha riguardato la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, acquisite a giugno del 2017 dal Gruppo Intesa Sanpaolo dopo la liquidazione coatta amministrativa. A perdere sono stati principalmente i titolari di azioni, mentre depositi e obbligazioni sono stati tutelati, anche se non integralmente per le obbligazioni subordinate. Ancora una volta a essere colpita è stata la proprietà delle banche (cioè gli azionisti, anche se questi includono certamente anche piccoli risparmiatori), mentre i depositanti e gli altri prestatori di fondi sono stati in buona parte tutelati. L’obiettivo perseguito con la liquidazione è stato di evitare “una improvvisa cessazione dei rapporti di affidamento creditizio per imprese e famiglie, con conseguenti forti ripercussioni negative sul tessuto produttivo e di carattere sociale, nonchè occupazionali”.
Dai bilanci dell’esercizio 2016 delle due banche popolari si evince, in assenza di intervento pubblico, che si sarebbero persi 7,6 miliardi di obbligazioni e 11,5 miliardi di conti correnti (in parte comunque tutelati, sotto i 100mila euro). Intesa San Paolo, che ha acquistato le due Banche Venete alla cifra simbolica di 1 euro, ne ha ereditato principalmente le attività sane, come prestiti concessi ai debitori affidabili. I crediti deteriorati sono stati invece trasferiti a una bad bank, che raccoglie le attività non più esigibili. L’intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi di euro, destinati a soddisfare il fabbisogno di capitale, nonché la ristrutturazione aziendale. A questi vanno aggiunti circa 400 milioni di garanzie, a fronte di un capitale garantito di 12,4 miliardi. Risorse che non è ancora possibile sapere se dovranno essere impiegate o meno.
IL COMMISSARIAMENTO DI CARIGE – Un altro caso è quello che riguarda la genovese Carige. Il cda dell’istituto ligure è stato commissariato dalla Bce nel gennaio 2019 dopo che i soci, alla fine del 2018, hanno bocciato un aumento di capitale da 400 milioni, necessario per ripagare un bond subordinato da 320 milioni sottoscritto d’urgenza dallo schema volontario del Fitd, il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, un consorzio di diritto privato sottoposto alla supervisione diretta della Banca d’Italia e che ha il compito di salvaguardare i depositi dei clienti delle banche.
I commissari e il fondo hanno cercato a lungo un partner industriale per mettere in sicurezza la banca ma i primi tentativi, che hanno coinvolto anche il fondo americano Blackrock, sono andati a vuoto. La soluzione individuata è passata per un maggior coinvolgimento del Fondo interbancario di tutela, anche con il braccio obbligatorio, e per un aumento da 700 milioni di euro in cui far entrare, come partner industriale, anche Cassa Centrale Banca.
Al termine, di una complessa trattativa, il salvataggio di Carige ha previsto un rafforzamento patrimoniale complessivo di 900 milioni di euro: 700 tramite aumento di capitale, con dei warrant gratuiti (1 ogni 4 azioni sottoscritte), che consentiranno in un secondo tempo di comprare le azioni sul mercato a metà prezzo. Altri 200 milioni verranno poi raccolti tramite un prestito subordinato sostanzialmente già tutto prenotato.
La ricapitalizzazione, per al quale non è previsto alcun intervento dello Stato in termini di liquidità, sarà distribuita per 312,2 milioni allo Schema volontario del Fondo interbancario, che convertirà i bond sottoscritti a novembre 2018, quando già per la prima volta il consorzio delle banche italiane aveva salvato Carige. La trentina Cassa centrale banca investirà inizialmente 63 milioni per arrivare al 9,9% di Carige, potendo però tra luglio dell’anno prossimo e la fine del 2021 acquistare in opzione le quote del Fitd e dello Schema volontario e diventare azionista di controllo dell’istituto ligure.
Lo stesso Fitd interverrà direttamente nell’aumento di capitale per altri 238,8 milioni, garantendo poi l’eventuale inoptato della quota riservata agli attuali azionisti. Ai vecchi soci andrà in opzione solo una quota di 85 milioni di euro della ricapitalizzazione. A partire dallo scorso 4 dicembre, è in corso la ricapitaliazzazione della banca e la terza tranche dell’aumento di capitale è stata sottoscritta per 16,8 milioni.
POPOLARE BARI E TERCAS – Nel 2014, mentre era già in difficoltà, la Popolare di Bari si è impegnata a rilevare la Tercas, la Cassa di Risparmio di Teramo. Dopo due anni di commissariamento, la Popolare di Bari è stata accusata da Bruxelles di aver ricevuto 265 milioni di euro di aiuti di stato, illegittimi, dal Fitd sotto forma di ricapitalizzazione di Tercas ante cessione. Nel marzo scorso però il Tribunale dell’Unione Europea ha dato ragione all’Italia e torto alla Commissione Europea, sugli aiuti di Stato. Bruxelles ha fatto ricorso e la vicenda non è ancora conclusa.