Una nuvola di fumo nera e densa, quel pomeriggio afoso di luglio che nessuno di noi potrà mai dimenticare, avvolse Palermo.
La stessa città che, in questi giorni, riemerge a fatica dall’acqua che ne ha letteralmente sommerso una parte.
Fuoco e acqua fanno eco l’uno all’altra, in una metafora che lega drammaticamente presente e passato.
Proprio di luglio, proprio a Palermo, come se perfino la Natura non fosse disposta a scordare cosa accadde il 19 luglio del 1992 e, con l’impeto di cui è capace, voglia farsi sentire per attirare ancora una volta l’attenzione su quella terra “bellissima e disgraziata”.
Oggi, 28 anni fa, in via D’Amelio a Palermo il giudice antimafia Paolo Borsellino veniva fatto esplodere sotto casa di sua madre, con 90 chili di esplosivo nascosti in una Fiat 126 rubata e parcheggiata lungo la strada. Insieme a lui persero la vita cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina.
Paolo Borsellino aveva solo 52 anni e solo 57 giorni erano trascorsi dalla strage di Capaci, in cui erano stati ammazzati il suo collega e amico Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Oggi il mio pensiero è rivolto a tutti loro. A quella estate calda e tragica che consegna alla storia l’esempio di chi resta e resterà, quale icona di legalità, di non rassegnazione al male, di lotta alla criminalità senza sé e senza ma.
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