di Vittorio Campagna
Dopo l’intervallo dedicato a Diopoldo e alle sue imprese, il poeta riprende a raccontare l’avanzata di Enrico VI attraverso il regno senza colpo ferire.Dopo aver distrutto Salerno e aver pacificato la Puglia ha attraversato la Calabria come “signore”; naviga poi attraverso lo Stretto sostando per poco tempo a Messina. Riparte per Favara dove ammira la città e le opera d’arte di Ruggero II: <<Fabariam veniens, socerum miratus et illam, delectans animos nobile laudat opus>> (“Venendo a Favara, ammirando orgoglioso la città del suocero, loda le nobili opere d’arte che gli animi dilettano”) (vv.1231-1232). A Favara riceve i legati della capitale: <<Legati quem preveniunt ex urbe Panormi, debita commisse verba salutis agunt>> (“Giungono prima di lui i legati della città di Palermo, riferiscono le debite parole di saluto loro affidate) vv.1233-1234).Circa Favara, ancora una volta (v. particola VII) preciso che non si parla della città in provincia di Agrigento, ma del Castello Reale detto Favara o Mare dolce, alle porte di Palermo. In Sicilia furono e sono parecchie le località chiamate Favara. Del resto, ritengo illogico che da Messina Enrico VI Cincumnavigasse la Sicilia (Messina-Catania-Siracusa-Favara, e forse, dopo Trapani e infine Palermo), quando poi sarebbe potuto andare a Palermo, navigando la costa settentrionale: Messina – Cefalù – Palermo, già sgombera dei Tancredini. Chiaramente, non è presa neanche in considerazione una cavalcata nell’entroterra della Sicilia per raggiungere Favara da Messina. Inoltre, sarebbe stato altrettanto illogico dover ricevere delegazioni del regno in una città lontano dalla capitale e soprattutto quella palermitana, la cui capitale dista da Favara circa 150 Km in linea d’aria. Infine, la particola fa intendere che lo svevo avesse raggiunto in poco tempo la capitale appena lasciato il Castello Reale di “Mare dolce” o Favara, quindi era già in zona (v.1255-1256).La delegazione, che dà il titolo alla Particola XXXIX: <<Legatio Panormi>> (“La delegazione di Palermo”), spiega all’imperatore lo stato d’animo dei palermitani e riferiscono che la capitale è a lui sottomessa e aspetta il suo ingresso in città per dargli il giusto tributo, come a chi eliminerà le guerre dal regno stabilendo una duratura pace; infatti, i delegati in nome dei cittadini pronunciano queste parole: <<Ore ferunt uno: ”Tu sol, tu lumen in orbe, tu spectata dies, qui sine nocte venis…”>> (“Ad una sola voce dicono: Tu, sole, tu luce del mondo, tu, giorno atteso che vieni senza notte… “) (vv.1237-1238). Ancora una volta, quindi, gli elogi non mancano per lo svevo.Inoltre, la delegazione palermitana annuncia allo Svevo che il piccolo re Guglielmo III, di soli nove anni, figlio del deceduto Tancredi, si è rifugiato in Caltabellotta nella speranza di trovarvi qualche difesa. Qui, il poeta, dopo gli elogi dedicati all’imperatore, riprende a infierire contro il deceduto re Tancredi, fino a definirlo ”Serpente”.Il nuovo sovrano del regno dispone per la città un gesto di pacificazione e di clemenza; i cittadini sono rassicurati nella vita e contro ogni rappresaglia. Appena l’araldo ha completato l’opera di bando, il nuovo re entra in città: <<Urbem pacifico milite Cesar adit>> (“Cesare – Enrico VI- entra in città pacificamente con le sue milizie”) (v.1256) e ne prende possesso
N.B. La traduzione dal latino del prof. Carlo Manzione, è offerta per gentile concessione dell’ Ass. ne Culturale “Ebolus dulce solum, Storia e Arte al servizio della Cultura“; mentre, l’articolo è tratto dal libro dell’autore, Vittorio Campagna: <<Pietro da Eboli, Vate latino della letteratura italiana>>, de “L’Aurore edizioni”, Torchiara 2018
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