Sono due anni che tutti stiamo combattendo verso un unico obiettivo e questa credo sia la nostra forza, la forza di un Paese che sta rispondendo, ma anche la forza di un sistema che deve rispondere a necessità e a un riconoscimento di quella che è una professionalità ormai agìta in modo ineccepibile a qualsiasi livello.
Gli infermieri – ma tutto il personale sanitario – non era certo pronto ad affrontare una situazione come quella che ci ha dato la pandemia.
Non lo eravamo dal punto di vista dei numeri dei nostri professionisti, non lo siamo stati per tutta la prima fase per l’aspetto dei dispositivi di protezione individuale, non lo siamo stati anche dal punto di vista dei contagi fino a che con l’avvento dei vaccini si sono interrotti i decessi e i casi che registriamo non sono più gravi come quelli delle prime due fasi della pandemia.
Gli infermieri sono i più colpiti dal Covid: a oggi sono oltre 181.000 quelli contagiati. Come afferma INAIL sono l’85% dei “contagiati” tra gli operatori sanitari.
Non eravamo pronti; eppure, non ci siamo mai fermati e non abbiamo mai lasciato indietro nessuno. E non solo sul fronte COVID, ma anche non Covid dove gli unici ad assistere anziani, cronici, non autosufficienti sul territorio sono stati proprio gli infermieri.
E a conferma di questo impegno di recente le associazioni che rappresentano gli oltre 22 milioni di cittadini-pazienti cronici (dalle associazioni dei malati oncologici a quelle dei portatori di stomie, da chi ha bisogno di nutrizione parenterale al coordinamento nazionale famiglie con disabilità e molte altre ancora) hanno chiesto in una petizione inviata al Governo, al Parlamento e alle Regioni, di non essere lasciati soli sul territorio, affermando che nella loro vita di tutti i giorni, per questo, hanno bisogno di più infermieri, anche specializzati per affrontare nel migliore dei modi le diverse esigenze.
Questo nonostante i turni massacranti, il super-lavoro e la condizione generale li abbia portati anche ad ammalarsi non solo per la contagiosità del virus, ma anche per lo stress lavoro-correlato dovuto sia alla gravità e all’impegno che l’assistenza richiede in questo momento sul fronte della pandemia e contemporaneamente per le esigenze di cura e assistenza degli assistiti non Covid, sia per la carenza grave di personale che ha portato alle condizioni di lavoro descritte.
Recenti studi di più Università italiane e internazionali hanno messo in evidenza che gli infermieri tra il personale sanitario sono i più colpiti da queste forme: gli infermieri che lavorano in unità di terapia intensiva o in unità COVID-19 sub-intensive hanno riportato percentuali più elevate di ansia e depressione. In particolare, il 61,5% delle donne ha mostrato grave ansia e il 44,3% ha mostrato una grave depressione.
Inoltre, il 69,5% degli infermieri in generale ha mostrato grave ansia e il 49,8% ha mostrato una grave depressione.
E dati analoghi a quelli riscontrati negli studi italiani sono stati rilevati anche in uno studio simile cinese che ha mostrato percentuali importanti di depressione (50%), ansia (44,6%), insonnia (34%) e stress psicologico (71,5%).
Gli infermieri non ce la fanno più.
Prima causa è la carenza di personale, poi le condizioni lavorative, ma complice sta diventando anche la demotivazione professionale visto che gli infermieri in Italia hanno tra le retribuzioni più basse d’Europa e scarsissime, se non nulle, possibilità di carriera.
La conseguenza è che molti sono arrivati perfino a licenziarsi, soprattutto al Nord, dove le possibilità di trovare un lavoro diverso ci sono, mentre al Sud si è quasi costretti a dover fare buon viso a cattivo gioco.
Numeri esatti su questo fenomeno non ce ne sono, ma si calcola ad esempio che in alcune Regioni siano centinaia i professionisti che abbandonano la professione. Una stima recente, ad esempio, calcola che nel Lazio si siano licenziati in circa 600 infermieri e se questa proporzione dovesse esse costante nelle Regioni – ripeto, molto meno evidente nel Sud che nel Nord – si potrebbe immaginare che questo fenomeno coinvolga in Italia poco meno di 3mila professionisti.
E se questi numeri si affiancano a quelli degli infermieri “fermi” per i contagi (almeno 6-7.000), a quelli degli infermieri sospesi perché non vaccinati (sono meno dello 0,3% dei professionisti e molti non sono vaccinati per ragioni di salute o sono semplicemente in attesa della dose booster, ma si tratta comunque di circa 4.000 operatori), si raggiungono cifre davvero preoccupanti di chi si aggiunge suo malgrado alla carenza che ormai sta generando gravi carenze all’assistenza.
Gli infermieri in questi due anni, oltre che dedicarsi all’assistenza nelle strutture di ricovero, non hanno mai trascurato l’attività sul territorio, dando aiuto sociale e sanitario, secondo la loro formazione, alle categorie più fragili, dagli anziani ai non autosufficienti, dagli homeless ai malati cronici e con pluripatologie che durante la pandemia hanno rappresentato la categoria maggiormente a rischio, si sono occupati della salute nelle scuole, nelle comunità e delle cure palliative, senza permettere che i cittadini e le loro famiglie fossero lasciati soli nei momenti di loro maggior bisogno di supporto sanitario e sociale.
Per realizzare un nuovo modello di assistenza è necessario prima di tutto più personale e specializzato, poi una rete sanitaria territoriale capillare, con un approccio proattivo che assicuri anche minor rischio di sviluppo, riacutizzazione e progressione delle condizioni croniche e una riduzione dei ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza.
Maggiore appropriatezza quindi e integrazione sociosanitaria con la possibilità di rispondere in modo personalizzato alle necessità della persona e della famiglia.
Per questo sarà necessario, tra l’altro, personale sanitario specializzato e formato, con compensi e possibilità di carriera adeguati e dedicato soprattutto ai fragili per una migliore assistenza rispetto alle esigenze del nuovo modello. In questo disegno l’infermiere è il naturale ‘collettore’ sia delle professioni tra loro che tra le professioni e i cittadini.
Abbiamo alcune criticità da superare dal fabbisogno di personale del tutto carente come dimostra il fatto che nelle Regioni gli infermieri non si trovano più alla loro formazione perché sia all’altezza dei nuovi compiti, dalla equiparazione di diritti e doveri e specificità con quelle delle altre categorie professionali perché tutti siano sullo stesso piano ai problemi di responsabilità anche dirigenziale e di retribuzione visto che gli infermieri italiani sono tra i meno pagati d’Europa. E di questo ne stiamo parlando con le Istituzioni e il Parlamento per trovare le soluzioni a breve, medio e lungo termine.
L’obiettivo è fare tesoro, purtroppo, di ciò che è accaduto in questi due anni e avere già da domani un infermiere che non ha maggiori responsabilità rispetto a quelle che gli sono già proprie oggi, ma che assume un ruolo di case manager per garantire che l’assistenza scorra liscia sul territorio e che gli ospedali restino davvero luogo di elezione dell’acuzie e dei casi gravi, mentre l’assistenza e la prossimità siano patrimonio del territorio.
Compiti questi che miglioreranno la compliance dei cittadini, ridurranno le liste di attesa e taglieranno i ricoveri, anche quelli impropri, con un vantaggio per tutti i professionisti che potranno lavorare al meglio secondo la loro formazione, per i cittadini che ovviamente troveranno un percorso efficiente e senza duplicazioni, per il sistema che eviterà colli di bottiglia nell’assistenza e spese inutili perché improduttive, rispetto a una gestione organizzata dei servizi.
Cosimo Cicia Presidente OPI SALERNO e Vicepresidente FNOPI