Figli di un Dio minore: uno dei disastri ferroviari peggiori della storia nazionale, rivive nel ricordo dello storico locale Raffaele Ciaglia.
Alle tre del mattino del 3 marzo 1944 un telegrafista di turno a Potenza trascrisse un messaggio: Treno 8017 fermo in linea tra Balvano e Bella-Muro per insufficienza forza trazione, attende soccorso.
Sono le prime scarne informazioni di quello che diventerà il più grande disastro ferroviario della storia italiana. Una sciagura che pochi ricordano, accerchiata e vinta dalle notizie riguardanti gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale.
Ricostruiamo i fatti per comprendere cosa sia accaduto al treno 8017.
Il 2 marzo, nel pomeriggio, il treno merci 8017, creato per caricare legname da utilizzare nella ricostruzione dei ponti distrutti dal secondo conflitto mondiale, partì da Napoli con destinazione Potenza. Il treno era molto lungo, motivo per cui fu dotato di una locomotiva elettrica del gruppo E.626 che fu sostituita, a Salerno, da due locomotive a vapore poste in testa al treno. Le due locomotive a vapore furono necessarie per percorrere il tratto dopo Battipaglia, che all’epoca dei fatti non era elettrificato. Il treno giunse a Battipaglia poco dopo le sei del pomeriggio. La linea che conduceva i treni da Napoli a Potenza era utilizzata dai campani per giungere in Basilicata, in fuga dalla fame. Erano i mesi insanguinati dalla battaglia di Cassino, dalla borsa nera e dalla paura. Il tratto che dalla Campania conduceva in Basilicata era percorso sia dai treni passeggeri che dal treno 8017, destinato al trasporto di materiali per la ricostruzione. Il treno 8017 non viaggiava in giorni stabiliti, come i treni passeggeri che partivano due volte la settimana da Napoli in direzione Potenza. Il treno merci viaggiava ad orario libero. Partiva quando vi era occorrenza dei materiali che trasportava.
Il treno 8017 partì vuoto da Napoli per caricare i materiali destinati alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dai bombardamenti. Nessuno sarebbe dovuto salire su quel treno. Nelle stazioni intermedie, Salerno ma soprattutto Battipaglia, fu preso d’assalto da persone che volevano trasportare beni da scambiare al mercato nero. Il treno ripartì da Battipaglia con il suo carico umano e di merci alle 19.00. Era composto da 47 carri merce ed aveva la ragguardevole massa di 520 tonnellate. La seconda locomotiva, non prevista in origine, fu necessaria per spostare il treno dalla Campania a Potenza, soprattutto per rendere più facile il valico tra Baragiano e Tito. Come tutte le locomotive delle Ferrovie dello Stato di quell’epoca le macchine avevano una cabina aperta ed un equipaggio formato da due persone: il macchinista per la conduzione ed un fuochista per spalare il carbone. Ad Eboli salirono altre 100 persone, tra cui un professore dell’Università di Bari che cercava di fare ritorno verso casa con una decina di studenti. Alla stazione di Romagnano salirono molte altre persone, tanto che il treno contava oltre 600 passeggeri. Molti di questi erano ragazzi provenienti dai grandi centri del napoletano che trasportavano beni, dal caffè ai maglioni, per scambiarli con zucchero, farina e pane al mercato nero di Potenza. Il treno giunse alla stazione di Balvano-Ricigliano verso la mezzanotte. La partenza fu ritardata di oltre mezzora per manutenzione alle locomotive. Il treno 8017 ripartì dieci minuti prima della una del 3 marzo del 1944. Il tratto dalla stazione di Balvano-Ricigliano alla successiva di Bella-Muro prevedeva una notevole pendenza con gallerie molto strette e poco aerate. Il treno 8017 avrebbe dovuto compiere quel tragitto in circa 20 minuti. Alle due e trenta del mattino non era ancora segnalato alla stazione di Bella-Muro.
Cos’era accaduto tra le due stazioni?
Nella galleria chiamata delle Armi, a causa dell’eccessiva umidità, le ruote iniziarono a slittare. Il treno perse aderenza, rallentando sino a rimanere bloccato. La galleria delle Armi è lunga poco meno di 2 km con un pendenza media di quasi il 13%. Il treno si arrestò 800 metri dopo l’ingresso. Solo gli ultimi due vagoni non erano entrati in galleria. Dato che poco prima un altro treno era transitato su quel percorso, all’interno della galleria, dotata di scarsissima aerazione, vi era una significativa concentrazione di monossido di carbonio. Gli sforzi delle locomotive per riprendere la marcia svilupparono grandi quantità di monossido di carbonio, facendo perdere i sensi al personale in cabina. In brevissimo tempo anche la maggioranza dei passeggeri, che stava riposando, fu asfissiata dai gas tossici che non potevano uscire dalla stretta galleria se non attraverso un piccolo condotto di aerazione. Il fuochista che sopravvisse alla disgrazia, Luigi Ronga, dichiarò che il macchinista, prima di svenire, tentò di dare potenza per superare lo stallo e trascinare il treno, con tutto il suo carico umano, fuori dalla galleria. Luigi Cozzolino, che dormiva accanto al figli dodicenne, si svegliò per le urla e si accorse che il ragazzo era morto. Il diciannovenne Ciro Pernace si addormentò sotto una mantella militare, svegliandosi all’ospedale di Potenza.
Molti altri non furono così fortunati. Alcuni passeggeri morirono senza rendersene conto. Altri cercando di scaraventarsi fuori dalle carrozze. Altri ancora schiacciati dalla folla impazzita. Gli operatori della seconda locomotiva, Matteo Gigliano ed il fuochista Rosario Barbaro, cercarono di invertire la marcia per retrocedere. Nel momento critico i due macchinisti agirono in modo opposto: il primo cercò di avanzare e il secondo di tornare indietro. Inoltre, a complicare ulteriormente la situazione, accadde che il frenatore del carro di coda, Giuseppe De Venuto, rimasto fuori dalla galleria, applicò alla lettera il regolamento che gli imponeva di manovrare il freno manuale per bloccare la marcia. Il frenatore, insieme al fuochista della locomotiva di testa, si salvò e camminando lungo i binari riuscì ad avvisare, alle 5.10 del mattino, il capostazione di Balvano che nella galleria delle Armi era presente un treno con numerosi cadaveri a bordo. Il capostazione di Balvano, alle 5.25, fece sganciare la locomotiva del treno 8025 e dispose una ricognizione alla galleria indicata. I soccorsi appena giunti sul posto si resero conto della gravità della disgrazia. Riuscirono a soccorrere 90 superstiti delle vetture più arretrare, tutti recanti sintomi di intossicazione da monossido di carbonio. Alle 8.40, con l’arrivo di uno seconda squadra di soccorsi, la linea fu liberata e il treno recuperato.
Il bilancio della tragedia fu impossibile da accertare con chiarezza, e fu oggetto di controversie: la stima ufficiale parlava di 501 passeggeri, 8 militari e 7 ferrovieri morti; alcune ipotesi considerano oltre 600 le vittime del disastro. Non tutti i passeggeri furono riconosciuti. I cadaveri furono allineati sulla banchina della stazione di Balvano e sepolti, senza funerali, nel cimitero del paese, in quattro fosse comuni. Gli agenti ferroviari furono sepolti a Salerno. Molti dei sopravvissuti riportano lesioni psichiche e neurologiche.
La disgrazia del treno 8017 è la più grave sciagura ferroviaria italiana ed una delle più gravi al mondo.
Nell’immediatezza degli eventi, come fu raccontata la sciagura?
Il Corriere della Sera parlò “500 italiani periti per asfissia e 49 superstiti in ospedale”. Il consiglio dei Ministri, riunitosi a Salerno, parlò di 517 morti. Aggiunse: “Tutto il personale addetto al treno è deceduto, all’infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo”. Lo stesso consiglio dei Ministri azzardò che la disgrazia era da “attribuirsi alla pessima qualità del carbone fornito dagli alleati”. Anche gli anglo-americani fecero un’inchiesta concludendo che le persone erano decedute a causa di un “avvelenamento da combustione di carbone di pessima qualità”. La Stampa di Torino, pubblicata in quella che ancora era la Repubblica di Salò, scrisse: “le notizie, finora trasmesse con il contagocce dagli inglesi, bastano ad inquadrare il tragico episodio nei sistemi usati dai liberatori nei riguardi dei nostri disgraziati connazionali caduti sotto il loro dominio”.
Molti dei parenti delle vittime intentarono causa alle Ferrovie dello Stato, le quali declinarono ogni responsabilità, sostenendo che su quel treno non avrebbero dovuto trovarsi passeggeri di alcun tipo. Le Ferrovie dello Stato dissero inoltre che non era nemmeno possibile risalire a chi avesse responsabilità della gestione della tratta nella quale si era consumata l’orrenda tragedia.
Per spegnere sul nascere le proteste dei familiari, che avrebbero potuto causare una vertenza che si sarebbe trascinata per anni, il Ministero del Tesoro sancì l’emissione di un risarcimento come se si trattasse di vittime di guerra.
Il risarcimento fu erogato dopo oltre 15 anni dalla tragedia.
Nel 1951 la rivista americana Time scrisse: “il governo alleato si sforzò di occultare l’incidente per evitare l’effetto deprimente sul morale degli italiani”.
Alla fine quello che conta è quanto riportato nella lapide scolpita nel cimitero di Balvano, ovvero che la disgrazia causò 509 morti, 408 uomini e 101 donne.
Forse 509 morti.
Forse furono oltre 600, molti dei quali senza nome, senza possibilità che qualcuno possa un giorno ricordarsi di loro…
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